Gli ultimi raggi di sole si abbattono con prepotenza sulle vetrate sporche dell’aeroporto, riflettendo un guazzabuglio felice di luce ombre e colori. Il cielo, che per tutto il giorno aveva giocato tra schiarite e dense nuvole nere cariche di pioggia, trova finalmente serenità con un rosa pastello che avvolge con delicatezza l’intero terminal. Il tramonto gioca così con i passeggeri e i loro bagagli, sancendo la quasi fine del giorno e accompagnando il termine della mia vacanza.
Non c’è nessuna calca, nessun rumore assordante, se non un continuo chiacchiericcio in varie lingue, che tra una chiamata a casa e una parola scambiata con il compagno di viaggio, determinano il rito abituale antecedente l’imbarco. Quasi fosse un sottofondo piacevole, in un bistrot in centro, accompagnato da un fresco aperitivo estivo, mi rilasso aspettando la chiamata del mio volo.
Finché alle mie spalle, un ragazzo di non oltre ventidue/ventitré anni, con il suo trolley non proprio leggero, l’aria sbadata e dei grandi occhiali neri, urta in maniera scomposta la fila di sedie dove sono seduta, provocando un tremore fastidioso che all’unisono fa voltare tutti gli astanti.
Noncurante della poca delicatezza con cui ha deciso di prendere posto, estrae subito dalla tasca il suo smartphone e chiama, come se avesse i secondi contati: mammà.
E’ italiano. Lo sapevo.
Ha perso la carta di imbarco e ovviamente essendo un figlio nostrano ha pensato bene di chiamare sua madre, che dalla penisola secondo lui avrebbe potuto risolvergli il problema. “L’ho tenuta in mano fino a poco prima dei controlli, poi sarà caduta, ora non la trovo più…e adesso come faccio?”.Probabilmente dall’altra parte una povera madre starà provando a dirgli di chiedere a qualcuno, ma la conclusione del figlio non è proprio dello stesso parere. “Vabbè…quando ci stiamo per imbarcare glielo dico che l’ho persa. Che sarà mai”.
Che sarà mai, con tutti questi attentanti nel mondo.
Ma dopo trenta secondi, non di più, uno speaker chiama il figlio made in Italy per consegnargli la carta di imbarco, ritrovata per terra da un collega. E con fare redarguente lo invita a prestare più attenzione per il futuro. Il ragazzo contento torna a sedersi, con la stessa delicatezza di un pachiderma indiano e che cosa fa? Chiama nuovamente mammà: ” L’ho trovata. Tutto ok. Ci sentiamo quando salgo sull’aereo”.
Su quell’aereo ci sono salita anche io e siccome sembrava di vivere sulle montagne russe, a causa di una turbolenza, penso che il figlio italiano abbia pensato di accendere la connessione e chiamare a casa, giusto per informare mammà che si vedevano in lontananza fulmini e saette.
Le luci di Roma ci hanno accolto con il loro solito fascino, illuminando gli antichi splendori di un Impero trionfale e anche se noi italiani siamo quello che siamo, il viaggio ha sempre un ritorno, dolce o amaro che sia. E anche questa volta sono tornata da dove a volte sarebbe meglio andarsene.