Volavo nel cielo, mentre la brezza marina mi accarezzava il piumaggio e pensavo che mio padre avrei potuto amarlo, forse un giorno, con il tempo, quando sarei diventata grande e avrei capito tante cose. Perché nella fanciullezza non si riesce a percepire tutto, perché essere genitori non è facile, perché quando si diventa adolescenti si diventa arroganti. O almeno era questo che mi ripetevano tutti i giorni i gabbiani più anziani. Eppure, io sapevo di aver inteso tutto, già quando mia madre mi portava nel becco il cibo nel nido, quando provavo a distendere le ali senza precipitare al suolo, quando tentavo di pescare la mia prima aringa. E ogni volta che tentavo di fare tutto ciò, voltando il collo e gli occhi lui non c’era mai.
Così, con i mesi ho imparato a non voltarmi più e a guardare sempre dritto, verso il mare.
Poi sono cresciuta, ho scelto di distaccarmi dal mio stormo di origine e di andare alla scoperta di posti lontani. Per cercare di capire, di riflettere, di liberarmi da quel pensiero fisso che mi ossessionava, tentando sempre di far restare vigile la speranza che quell’amore sarebbe potuto nascere. Ho percorso chilometri di cielo, sono migrata alla ricerca di climi più miti, ho incontrato tanti amici, e poi ogni anno sono sempre tornata lì dove sono nata.
La speranza però, ormai è sempre più lieve e la convinzione crescente è che questo amore si stia man mano trasformando in indifferenza, sfociando quasi in odio, alla ricerca di un riscontro che per troppo tempo ho atteso. Avrei voluto una dimostrazione di affetto, una testimonianza che quell’uovo sia stato voluto e non solo ottenuto perché si “doveva”.
E’ ormai primavera inoltrata e prima di tornare a casa ho deciso di pescare qualche aringa. Così avverto i miei amici di questa mia sosta e punto dritta verso il mare. Decido di essere svelta e miro l’acqua scendendo in picchiata. Adoro sentire gli schizzi freddi sul mio corpo libero, mentre scivolo verso il mio spuntino preferito.
Ora non vedo più nulla. I raggi del sole sono scomparsi. Una chiazza nera mi sta risucchiando verso il fondo del mare. E’ il petrolio, che appesantisce le mie ali. Non riesco a risalire verso la superficie e insieme a me, sott’acqua ci sono centinaia di aringhe morte. Non respiro più…volto gli occhi e il collo, ma non c’è verso di liberarmi da quella sostanza appiccicosa. So che non riuscirò a sopravvivere e scuoto per l’ultima volta la mia testa, sperando di scorgere mio padre, per un ultimo addio. Perché forse in cuor mio, il mio amore c’era e c’è sempre stato verso lui…ma anche questa volta lui non c’è.
E così, me ne vado via come una delle tante gabbianelle di Sepúlveda a largo della Costa di Amburgo, portandomi tra le onde una speranza ormai morta, insieme alla chiazza nera di petrolio.