Le sale di attesa condensano dentro di loro il fulcro emotivo di ogni persona, che le attraversa con sentimenti controversi, in un pulviscolo fatiscente di sensazioni. E da quelle sedie di plastica dura, di quel colore grigio cemento, si vede lo smarrimento, che alcuni non pensavano mai nella vita avrebbero dovuto affrontare.
E’ l’attesa la nemica di molti, che percuote come un martello pneumatico il dubbio che si installa dentro la mente. Mentre la paura dilania il cuore e fa vibrare ogni singolo muscolo. E’ quell’incertezza che precede un verdetto, che attesterà come Cesare, con un pollice verso l’alto o verso il basso, un destino infame o finalmente la liberazione.
Perché a volte ci troviamo proprio come i gladiatori dell’Antica Roma, costretti dentro il Colosseo, con la consapevolezza conscia, che da un momento all’altro le gabbie verranno aperte e le tigri liberate. E per quanto abili potranno essere i nostri movimenti, per quanto astuta potrà essere la nostra strategia di sopravvivenza, il nostro corpo se squarciato e straziato resterà inerme. E allora sarà preda, sarà pasto, sarà morto.
Ma quella sala d’attesa è un limbo che crea ancora speranza. Che unisce nella sventura, che porta alla riflessione sul contorno, su quelle inezie quotidiane a cui prima facevamo affidamento. E’ un’anteprima di un ingresso verso una sentenza, da cui non possiamo rifuggire.
Gli occhi smarriti si voltano allora verso quella porta che si apre, mentre il bianco candido delle pareti non crea calore, ma solo un getto di freddo che paralizza. E mentre il nome riecheggia nella sala, ecco che il cuore arriva in gola. Le mani afferrano la borsa, trascinano dietro di sé la giacca e guardano gli astanti cercando conforto.
I passi claudicanti si avvicinano in fretta verso la fine dell’attesa, ma senza essere fermamente sicuri di voler uscire da quel limbo, da cui ricevevano ancora speranza. Ed ecco che quella porta si chiude e quelle spalle spariscono, così come l’incertezza del non avere certezza.